Andiamo ora a ritrovarli nei menù secenteschi, perché compaiono in bella vista. Cerchi il caviale e lo scopri nell’Arte di ben cucinare del 1662 in un primo servizio di credenza e di cucina, per un giorno di magro: “Rinforzo: quattro piatti di pane bruscato, coperto di caviale di Sturione, ornata l’ala del piatto con polpa d’olive e fette di limone”. E accanto? “Quattro tondini con sapore di mandorle, e suoi ingredienti”. Alla corte di Mantova dove opera lo Stefani, la tavola è “quadrata, perfetta con tovaglia doppia".
Con la fine secolo comincia l’influenza francese sulla cucina, sulla tavola e sulla lingua. Nel Settecento i crostini hanno due nomi e una doppia identità. Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi del 1766, li chiama arrostite da rôties, dedica loro un capitolo e li copre con acciughe, giamboni, ventresca, rognone di vitello, cocomeri… Una questione puramente linguistica? Si direbbe, data la materia prima, fette di pane passate nel burro, e il condimento. Ma non tutti cedono alla moda, e nelle Marche e in Toscana resistono i crostini. Li propone, nel 1786, Antonio Nebbia con Il cuoco maceratese, un intero capitolo con 19 ricette in cui ritroviamo, oltre al caviale, le lumache, il sugo di pesce o i rossi d’uova sode, con mandorle abbrustolite, zucchero e canditi. Il crostino è raccomandato per “i pranzi di parata, servendo essi non solo per piatti di rinforzo, ma ancora per ridonare ai commensali il gusto”. Quindi li consiglia l’Oniatologia in Toscana, con una salsa di pesce, e il grande Francesco Leonardi, romano, già cuoco di Caterina II, propone un compromesso linguistico, crostini al canapè, senza rinunciare alle alici salate.
Le fettine di pane fritte nel burro sono tornate ad affiancare nel piatto intingoli e a stuzzicare l’estro del cuoco, oppure vengono ritenute scontate e taciute, anche quando tutte le conserve, alici per prime, vengono prescritte. Il nome crostini è condiviso dai ricettari e verrà definitivamente assegnato da Pellegrino Artusi ad un capitolo, quello dei “princìpi o antipasto”, serviti prima o piuttosto dopo la minestra “come si usa in Toscana”. Ne ritroviamo undici ne La scienza in cucina, nel 1891 e nelle edizioni successive, con il caviale e con le acciughe, con i fegatini e con le interiora della beccaccia, senza, ovviamente, far cenno alla loro secolare storia.
Bartolomeo Stefani, L’Arte di ben cucinare, Osanna, Mantova, 1662, 104
Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, Slow Food, Bra, 1995, pp.256-257 (Ricca, Torino, 1766)
Antonio Nebbia. Il cuoco maceratese, Gruppo 83, Macerata, 1994, pp. 220-227 (Chiappini, Macerata, 1781)
Oniatologia, Pagani, Firenze, 1804, 122 (Pagani, Firenze, 1785)
Francesco Leonardi, L’Apicio Moderno, Roma, 1790, VI,267-268
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina, Rizzoli, Milano, 2011, pp.162-169 (Landi, Firenze, 1891-2011)