C’era una volta il Fast Food. Una ristorazione veloce. Veloce nella produzione, veloce nella distribuzione e veloce nel consumo. Un prodotto di bassa-media qualità, un costo decisamente contenuto, ambienti spesso spartani e servizio prevalentemente self service.
Da qualche anno il Fast Food sembra avere un pericoloso competitor. Era il 1993 e iniziava a circolare un nuovo termine: Fast Casual. Un segmento che si opponeva al Fast Food, prendendone in prestito la velocità di gestione e organizzazione, ma con una qualità più simile a quella della ristorazione di alto livello.
Si tratta di un fenomeno dai confini ancora sfumati, tanto che spesso gli esperti di settore si litigano la classificazione di Fast Food o Fast Casual per questo o quel brand. Un esempio da tutti riconoscibile è Starbucks, a volte definito in un senso, a volte in un altro. Una cosa è certa: il cliente del Fast Casual, lungi dallo scendere a compromessi, vuole velocità e qualità insieme. Sia in termini di produzione, che di distribuzione e di servizio, ma anche di ambiente e atmosfera. E per questo è disposto a pagare un po’ di più. I numeri sono significativi, soprattutto negli Stati Uniti, dove entrambi i fenomeni sono nati e hanno preso velocemente piede: negli ultimi 15 anni il Fast Casual ha avuto una crescita 10 volte superiore a quella del Fast Food.
E in Italia? In Italia nascono quotidianamente diversi format che, spesso inconsapevolmente e a diverso titolo, operano sotto il nome di Fast Casual: Vasiniko, Panino Giusto, Rossopomodoro, That’s Vapore, Vanilla Bakery, Roadhouse Grill, Grom, Obicà, Ham Holy Burger, Ca’Puccino, Panini Durini e tanti altri. Si tratta di brand con più o meno locali, ma tutti con quelle caratteristiche di velocità e qualità che definiscono chiaramente il segmento.
Inconsapevolmente o no, l’Italia, quindi, può dire la sua sull’argomento, soprattutto grazie alla qualità della sua produzione di cui ha fame tutto il mondo.